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2024/04/18 - 19:36

Arresto

Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché un mattino, senza che avesse fatto niente di male, venne arrestato. La cuoca della signora Grubach, la sua affittacamere, che ogni giorno verso le otto gli portava la colazione, questa volta non venne. Ciò non era mai successo. K. aspettò ancora un poco, dal suo cuscino contemplò l’anziana signora che abitava di fronte a lui e che lo osservava con una curiosità per lei del tutto inusuale, infine, disorientato e affamato al tempo stesso, suonò il campanello. Subito qualcuno bussò, ed entrò un uomo che non aveva mai visto in questa casa. Era snello e tuttavia ben piantato, indossava un vestito nero attillato provvisto, come i vestiti da viaggio, di diverse pieghe, tasche, fibbie, bottoni e di una cintura, e che perciò, senza che ne fosse ben chiaro il motivo, sembrava particolarmente pratico. "Chi è lei?" domandò K. e subito si mise a sedere sul letto. Ma l’uomo trascurò la domanda, come se la sua comparsa dovesse essere accettata di per sé, e da parte sua disse soltanto: "Ha suonato?" "Anna deve portarmi la colazione", disse K. e cercò come prima cosa di stabilire in silenzio, con attenzione e riflessione, chi fosse in realtà l’uomo. Ma costui non si offrì troppo a lungo ai suoi sguardi, si voltò verso la porta aprendola un poco e disse a qualcuno che evidentemente era in piedi subito dietro la porta: "Vuole che Anna gli porti la colazione." Ne seguì in anticamera una risatina, a giudicare dal suono non era chiaro se vi partecipasse più di una persona. Evidentemente l’estraneo non poteva averne ricavato nuove informazioni, tuttavia col tono di voce di un annuncio formale disse a K.: "Ciò è impossibile". "Questa sarebbe una novità", disse K., saltò giù dal letto e si infilò velocemente i pantaloni. "Voglio proprio vedere che razza di gente c’è nell’altra stanza, e come si giustificherà davanti a me la signora Grubach per questa intrusione". Gli venne subito in mente che sarebbe stato meglio non dire questo ad alta voce e che, così facendo, riconosceva in certa misura all’estraneo un diritto di sorveglianza, ma per il momento la cosa gli parve priva di importanza. L’estraneo invece sembrò intenderla proprio in questo modo, perché disse: "Non preferisce piuttosto rimanere qui?" "Io non intendo né rimanere qui né che lei mi rivolga la parola senza neppure essersi presentato." "Non avevo cattive intenzioni", disse l’estraneo, e aprì spontaneamente la porta. Nella stanza accanto, dove K. entrò più lentamente di quanto avrebbe voluto, tutto sembrava a prima vista esattamente come la sera prima. Era il soggiorno della signora Grubach, e forse in questa stanza strapiena di mobili, tovaglie, porcellane e fotografie c’era oggi un po’ più spazio del solito, ma non lo si notava subito, tanto più che la novità principale consisteva nella presenza di un uomo seduto presso la finestra aperta con un libro, dal quale alzò gli occhi proprio in quel momento. "Lei avrebbe dovuto rimanere nella sua stanza! Non glielo ha detto Franz?" "Sì, che cosa vuole lei?" disse K., e con lo sguardo passò da questa nuova conoscenza all’uomo chiamato Franz, che era rimasto sulla soglia della porta, e quindi di nuovo al suo interlocutore. Di nuovo dalla finestra aperta si poteva vedere la vecchia signora, che con curiosità veramente senile era ora passata alla finestra di fronte a questa stanza, per continuare a vedere la scena. "Ora però voglio la signora Grubach, per...", disse K., e fece un movimento come per andarsene strappandosi dai due uomini, che però stavano a distanza da lui. "No", disse l’uomo vicino alla finestra, gettò il libro su un tavolino e si alzò in piedi. "Lei non può andarsene, è in arresto." "Così sembra", disse K., poi aggiunse: "E perché?" "Questo non siamo autorizzati a dirglielo. Vada nella sua stanza e aspetti. Il procedimento è stato avviato, e lei saprà tutto a tempo debito. Vado già al di là dei miei compiti parlando così amichevolmente. Ma spero che ci sia solo Franz ad ascoltare, e anche lui, contro ogni regola, si è già comportato con amicizia nei suoi confronti. Lei potrà stare tranquillo se solo continua ad avere la fortuna che ha avuto nella designazione dei suoi sorveglianti." K. voleva sedersi, ma si accorse che non c’era posto se non sulla sedia vicino alla finestra. "Se ne accorgerà, come sia vero tutto ciò", disse Franz, e gli si avvicinò, contemporaneamente al suo compagno. Soprattutto quest’ultimo era molto più alto di K., e gli dava dei colpetti sulla spalla. Entrambi esaminarono la camicia da notte di K., dicendo che d’ora in poi avrebbe dovuto indossarne una molto più scadente, ma che loro avrebbero custodito questa come tutto il resto della sua biancheria, e gli avrebbero restituito tutto quando la cosa fosse andata a buon fine. "Le conviene dare le cose a noi anziché al deposito", dissero, "perché al deposito spesso qualcosa viene rubato, e poi dopo un certo tempo tutto viene venduto, senza considerare se il relativo procedimento sia finito oppure no. E poi, specialmente negli ultimi tempi, quanto sono lunghi questi processi! Certo, alla fine lei otterrebbe dal deposito un qualche ricavo, ma prima di tutto questo ricavo è già piccolo di per sé, dato che al momento della vendita conta non tanto l’entità dell’offerta quanto quella della relativa corruzione; e in secondo luogo tali ricavi, come si sa, diminuiscono progressivamente passando di mano in mano e di anno in anno." K. prestava scarsa attenzione a questo discorso, il diritto di proprietà sulle sue cose, diritto che forse aveva ancora, gli stava a cuore meno dell’avere chiarezza sulla sua posizione; ma in presenza di questa gente non poteva neppure riflettere, la pancia del secondo sorvegliante - poiché solo di sorveglianti poteva trattarsi - urtava in continuazione contro di lui, come per manifestare amicizia, ma se K. alzava gli occhi vedeva, in contrasto con questo corpo massiccio, una faccia asciutta e ossuta, con un grosso naso storto da un lato, che all’insaputa di K. faceva cenni all’altro sorvegliante. Che razza di uomini erano? Di che cosa parlavano? A quali autorità ubbidivano? Eppure K. viveva in uno stato di diritto, ovunque regnava la pace, tutte le leggi erano in vigore, chi poteva osare di piombare così in casa sua? Aveva sempre avuto la tendenza a prender tutto il più possibile alla leggera, a credere al peggio solo quando si presentava, a non farsi preoccupazioni per il futuro, neppure quando le minacce erano grandi. Ma tutto ciò ora non sembrava adeguato alla situazione, il tutto sembrava piuttosto uno scherzo, uno scherzo di cattivo gusto che per ragioni ignote, forse perché oggi era il suo trentesimo compleanno, gli era stato preparato dai suoi colleghi della banca, naturalmente era una cosa possibile, forse sarebbe bastato in qualche modo ridere in faccia ai sorveglianti, e loro avrebbero riso insieme con lui, forse erano solo uscieri presi all’angolo della strada, e ne avevano anche l’aspetto - ciononostante, fin dalla prima apparizione del sorvegliante Franz era assolutamente deciso a non rinunciare al minimo vantaggio che forse poteva avere nei confronti di questa gente. Se in seguito si fosse detto che non aveva capito lo scherzo, questo sembrava a K. un pericolo trascurabile, in compenso ricordava bene - anche se non era sua abitudine imparare dall’esperienza - alcuni casi insignificanti di per sé, nei quali, a differenza dei suoi amici, si era comportato scientemente in maniera imprudente, senza alcuna sensibilità per le possibili conseguenze, e alla fine il risultato lo aveva punito. Questo non doveva più accadere, per lo meno non questa volta, e se tutto era una commedia, ebbene, avrebbe recitato la sua parte.

Per il momento era ancora libero. "Con permesso", disse e passando fra i due sorveglianti rientrò in fretta nella sua stanza. "Sembra che sia ragionevole", sentì dire dietro di sé. Nella sua stanza spalancò subito i cassetti della scrivania, dove tutto era in perfetto ordine, ma nella sua agitazione non gli riuscì di trovare subito proprio i documenti di identità che cercava. Alla fine trovò la sua patente di ciclista e con quella stava già per tornare dai sorveglianti, ma poi il documento gli sembrò troppo insignificante e continuò a cercare finché trovò il certificato di nascita. Quando tornò nella stanza attigua, si aprì la porta che stava proprio di fronte e la signora Grubach fece l’atto di entrare. La si vide solo un momento, perché K. ebbe appena il tempo di riconoscerla che la donna, in evidente imbarazzo, chiese scusa, scomparve alla vista e chiuse la porta con la massima cautela. "Entri pure", avrebbe ancora potuto dire K. Ora però si trovava in mezzo alla stanza con i suoi documenti in mano, guardò ancora la porta, che non si riaprì più, e fu infine scosso da un richiamo dei sorveglianti, che erano seduti al tavolino vicino alla finestra aperta e che, come solo ora K. notò, stavano consumando la sua colazione. "Perché non è entrata?" chiese K. "Non può farlo", disse quello grosso, "lei è in arresto." "Ma come è possibile che io sia in arresto? E in questo modo poi?" "Ora lei ricomincia", disse il guardiano immergendo un panino imburrato nel barattolo del miele. "A domande del genere non diamo risposta." "Voi dovrete dare una risposta", disse K. "Ecco i miei documenti di identità, ora mostratemi i vostri, e soprattutto il mandato di arresto." "Santo cielo!" disse il guardiano, "lei non vuol proprio adattarsi alla sua situazione, e sembra essersi messo d’impegno a infastidire inutilmente noi, che in questo momento siamo forse in tutta l’umanità quelli che le sono più vicini." "E’ proprio così, creda", disse Franz, senza portare alla bocca la tazza di tè che teneva in mano e anzi osservando K. con un lungo sguardo evidentemente pieno di significato, eppure incomprensibile. K., senza volerlo, cedette allo scambio di sguardi con Franz, ma poi colpì con la mano le sue carte e disse: "Ecco i miei documenti di identità." "E che ce ne importa?" esclamò allora il guardiano grosso, "lei si comporta peggio di un bambino. Ma che cosa pretende? Pensa forse di condurre a termine alla svelta il suo stramaledetto processo solo discutendo con noi sorveglianti di documenti e mandati d’arresto? Noi siamo dipendenti di basso livello, non ci intendiamo di documenti e abbiamo a che fare con lei solo perché dobbiamo sorvegliarla per dieci ore al giorno, compito per il quale siamo pagati. Questo è tutto quel che siamo, però siamo in grado di capire che le alte autorità sotto cui lavoriamo prima di disporre un simile arresto si informano molto bene sui motivi dell’arresto stesso e sulla persona dell’arrestato. In ciò non vi è alcun errore. La nostra autorità, per quel che la conosco, e io conosco solo i gradi più modesti, non si mette a cercare la colpa nella gente ma, come recita la legge, viene attirata dalla colpa e deve mandare noi sorveglianti. Questa è la legge. Che errore potrebbe esserci?" "Io non conosco una simile legge", disse K. "Tanto peggio per lei", disse il sorvegliante. "Il fatto è che sta solo nelle vostre teste", disse K., voleva in qualche modo insinuarsi nei pensieri dei sorveglianti per volgerli a suo vantaggio o per abituarsi ad essi. Ma il sorvegliante disse solo, con distacco: "Se ne accorgerà." Franz si intromise e disse: "Ti sei accorto, Willem? Ammette di non conoscere la legge e al tempo stesso pretende di essere innocente." "Hai ragione, ma non gli si può far capire niente", disse l’altro. K. non rispondeva più; forse che devo, pensava, lasciarmi confondere ancor più dalle chiacchiere di questi dipendenti così infimi, come loro stessi riconoscono di essere? In ogni caso parlano di cose che non comprendono neppure. La loro sicurezza è resa possibile solo dalla loro stupidità. Due parole scambiate con un mio pari renderanno tutto incomparabilmente più chiaro che i lunghi discorsi con costoro. K. camminò un po’ su e giù nello spazio libero della stanza, lassù vide la vecchia signora che ora aveva trascinato alla finestra anche un signore canuto ancor più vecchio di lei, che la teneva abbracciata; K. doveva porre fine a questa rappresentazione. "Conducetemi dal vostro superiore", disse. "Quando lo vorrà lui; e non prima" disse il guardiano che era stato chiamato con il nome di Willem. "E ora le consiglio", aggiunse, "di andare nella sua stanza, restarsene calmo e aspettare quel che si deciderà su di lei. Il nostro consiglio è di non distrarsi in pensieri inutili, ma piuttosto di raccogliersi, poiché si richiederà molto da lei. Lei non ci ha trattati come la nostra condiscendenza avrebbe meritato, lei ha dimenticato che, qualunque cosa noi siamo, come minimo però ora davanti a lei noi siamo uomini liberi, e questo non è un piccolo vantaggio. Nonostante ciò, se lei ha denaro, siamo disposti a portarle su dal caffè una piccola colazione."

Senza rispondere a questa offerta, K. rimase silenzioso per un poco. Forse, se avesse aperto la porta della stanza accanto o anche quella del corridoio i due non avrebbero osato fermarlo, forse spingere la cosa agli estremi sarebbe stata la soluzione più semplice di tutto. Ma forse però lo avrebbero afferrato, e se veniva immobilizzato perdeva anche tutta la superiorità che da un certo punto di vista conservava ancora su di loro. Perciò preferì la sicurezza della soluzione che sarebbe stata portata dal naturale corso degli eventi e se ne tornò nella sua stanza, senza che si pronunciasse un’altra parola da parte sua o da parte dei guardiani.

Si gettò sul letto e prese dal comodino una bella mela che si era preparato la sera prima per la colazione. Ora rappresentava tutta la sua colazione e in ogni caso, come si accertò fin dal primo grosso morso, era una colazione ben migliore di quella che avrebbe potuto ricevere dallo sporco caffè notturno, grazie al servizio dei sorveglianti. Si sentiva bene e pieno di sicurezza, certo stamattina in banca avrebbe ritardato al lavoro, ma data la posizione relativamente alta che occupava ciò sarebbe stato facilmente perdonato. Doveva, per giustificarsi, dire la verità? Intendeva farlo. E se non gli avessero creduto, cosa ben comprensibile in questo caso, avrebbe potuto addurre a testimone la signora Grubach o anche i due vecchi della casa di fronte che ora, s’intende, erano in marcia diretti alla finestra di fronte a lui. K. si meravigliò, almeno dal punto di vista dei sorveglianti, che lo avessero mandato nella stanza lasciandolo solo, in modo che ora disponeva di dieci modi diversi di uccidersi. Al tempo stesso però si chiese, questa volta dal suo punto di vista, quali ragioni potesse avere per farlo. Forse perché quei due sedevano di là e gli avevano mangiato la colazione? Uccidersi sarebbe stato così insensato che, anche se ne avesse avuto l’intenzione, non avrebbe potuto farlo proprio per tale insensatezza. Se la limitatezza spirituale dei sorveglianti non fosse stata così evidente, si sarebbe potuto pensare che non considerassero pericoloso il lasciarlo solo proprio sulla base di una simile convinzione. Se volevano potevano ora osservare come si avvicinasse a un armadietto a muro, nel quale custodiva un buon liquore, come se ne vuotasse un primo bicchierino in sostituzione della colazione, e poi un secondo con l’intento di procurarsi coraggio, quest’ultimo solo per prudenza, nel caso improbabile che ce ne fosse bisogno.

In quel momento un richiamo dall’altra stanza lo spaventò talmente, che batté con i denti sul vetro. "L’ispettore la sta chiamando" si sentì. Ciò che lo aveva spaventato era solamente il grido, questa specie di grido militare, breve e scandito, di cui non avrebbe ritenuto capace il sorvegliante Franz. L’ordine in sé era benvenuto, "finalmente" esclamò in risposta, chiuse a chiave l’armadietto e si affrettò subito nell’altra stanza. I due sorveglianti lo cacciarono subito indietro nella sua stanza, come se fosse una cosa ovvia, ed esclamarono: "Cosa le salta in mente? Vuole comparire davanti all’ispettore in camicia da notte? La farebbe bastonare, e noi insieme con lei!" "Lasciatemi, andate al diavolo", gridò K., che era già stato respinto fino all’armadio degli abiti, "se mi si viene a cercare a letto, non ci si può aspettare di trovarmi in abito da sera." "Questo non significa niente", dissero i sorveglianti, che sempre, quando K. cominciava a gridare, diventavano calmi e quasi tristi, e in tal modo lo confondevano o, in certa misura, lo facevano tornare in possesso dei propri nervi. "Quante cerimonie!" brontolò alla fine, tuttavia prese dalla sedia una giacca e per un poco la tenne con le due mani, come per esporla al giudizio dei sorveglianti. Questi scossero la testa. "Deve essere una giacca nera", dissero. Allora K. gettò la giacca per terra e disse - senza tuttavia sapere bene lui stesso che cosa intendeva: "Non è mica il dibattimento principale." I sorveglianti sorrisero, ma ripeterono il loro ritornello: "Deve essere una giacca nera." "Se così facendo accelero questa storia, mi dovrò adattare", disse K., aprì lui stesso l’armadio, cercò a lungo fra i molti abiti, scelse il suo miglior abito nero, un abito a giacca che per la sua fattura aveva fatto quasi sensazione presso i suoi conoscenti, prese anche un’altra camicia e cominciò a vestirsi con accuratezza. Dentro di sé pensava di fare più presto grazie al fatto che i sorveglianti avevano dimenticato di costringerlo a lavarsi. Li osservò per vedere se se ne ricordavano, ma naturalmente questo non venne loro in mente, invece Willem non dimenticò di mandare Franz dall’ispettore con l’annuncio che K. si stava vestendo.

Quando ebbe finito di vestirsi, seguito da vicino da Willem, dovette attraverso la stanza attigua passare nella stanza successiva, la cui porta era già stata spalancata. Come K. ben sapeva, questa stanza era da poco abitata da una certa signorina Bürstner, una dattilografa che era solita andare al lavoro molto presto la mattina, tornare a casa tardi e con la quale K. aveva scambiato a malapena qualche parola di saluto. Ora il piccolo comodino era stato spostato dal suo letto nel mezzo della stanza come tavolo da lavoro, e l’ispettore era seduto dietro di esso. Costui teneva le gambe accavallate, e appoggiava un braccio sulla spalliera della sedia. In un angolo della stanza c’erano tre giovani, intenti a guardare le fotografie della signorina Bürstner, che erano infisse su un telino appeso alla parete. Alla maniglia della finestra aperta era appesa una camicetta bianca. Alla finestra di fronte c’erano di nuovo i due vecchi, ma la loro compagnia era aumentata, perché dietro di loro, molto più alto, c’era un uomo con la camicia aperta sul petto, che si schiacciava e torceva con le dita un pizzetto rossiccio.

"Josef K.?" chiese l’ispettore, forse solo per attirare su di sé lo sguardo distratto di K. K. fece cenno di sì. "Quel che è successo stamane è stato per lei una grossa sorpresa?" chiese l’ispettore, e intanto spostava con entrambe le mani i pochi oggetti sul comodino, la candela con i fiammiferi, un libro e un portaspilli, come se fossero oggetti utili al procedimento. "Certamente", disse K., pervaso dalla piacevole sensazione di trovarsi finalmente davanti a una persona ragionevole e di poter parlare con lui dei propri affari. "Certamente è stata una sorpresa, ma non una grossa sorpresa." "Non una grossa sorpresa?" chiese l’ispettore, e mise la candela in mezzo alla superficie del comodino, mentre raggruppava intorno ad essa gli altri oggetti. "Forse lei non mi comprende", si affrettò a osservare K. "Voglio dire che..." Qui K. si interruppe, cercando intorno una sedia con lo sguardo. "Posso sedermi?" domandò. "Non è abitudine", rispose l’ispettore. "Voglio dire", disse K. senza ulteriori pause, "che certo è stata una grossa sorpresa, ma quando si è al mondo da trent’anni e ci si è fatta strada da soli come nel mio caso si è induriti contro le sorprese, e non si attribuisce loro eccessiva importanza. Soprattutto poi nel caso odierno." "Perché soprattutto nel caso odierno?" "Non voglio dire che sia uno scherzo, tutto l’allestimento mi sembra eccessivo per considerarlo tale. Dovrebbero prendervi parte tutti i pensionanti della casa, e anche lei, questo andrebbe al di là dei limiti di uno scherzo." "Ciò è del tutto giusto", disse l’ispettore e considerò quanti fiammiferi ci fossero nella scatola. "D’altronde però", continuò K. voltandosi verso gli altri, e si sarebbe volentieri rivolto anche ai tre che guardavano le fotografie, "d’altronde però la situazione non può neppure avere una eccessiva importanza. Lo deduco dal fatto che vengo accusato senza che io riesca a trovare la più piccola colpa della quale mi si possa accusare. Ma anche questo è collaterale, la vera domanda è: da chi vengo accusato? Quale autorità gestisce il procedimento? E voi, siete impiegati? Nessuno indossa una uniforme, a meno che non si voglia definire tale il suo vestito" - e dicendo così si rivolgeva a Franz - "ma direi che sembra piuttosto un abito da viaggio. Su tali questioni io esigo chiarezza, e sono convinto che dopo questo chiarimento potremo congedarci nella massima cordialità." L’ispettore sbatté sul tavolo la scatola di fiammiferi. "Lei si trova in un grave errore", disse. "I signori qui e io stesso siamo del tutto secondari in rapporto alla sua questione, e anzi non ne sappiamo quasi nulla. Potremmo indossare le più regolari uniformi, e il suo affare non andrebbe per nulla peggio. Non posso neanche dirle se lei è accusato, o meglio non lo so neppure. Lei è in arresto, questo è vero, ma non so niente di più. Forse i sorveglianti hanno parlato a vanvera di qualcos’altro, ma si tratta per l’appunto di chiacchiere. Perciò, se pure non posso rispondere alle sue domande, tuttavia posso consigliarle di pensare meno a noi o a quello che le succederà; pensi piuttosto a se stesso. E non la faccia tanto lunga con i suoi sentimenti di innocenza, questo disturba l’impressione non del tutto negativa che lei risveglia per il resto. E poi, in generale, lei dovrebbe essere più riservato nel parlare, quasi tutto ciò che lei ha detto finora lo si sarebbe potuto dedurre dal suo comportamento anche se lei avesse detto solo due parole, e oltretutto non era niente che le fosse particolarmente favorevole."

K. guardò fisso l’ispettore. Doveva star qui a sentire la lezione da un uomo forse più giovane di lui? In compenso della sua franchezza doveva ricevere simili ammonizioni, e non venire a sapere niente sui motivi e i mandanti del suo arresto? Entrò in una certa agitazione, cominciò a camminare su e giù, cosa che nessuno gli impedì di fare, si tirò indietro i polsini, si tastò il petto, si lisciò i capelli con la mano, passò accanto ai tre signori, disse: "E’ una cosa insensata", alle quali parole i signori si voltarono verso di lui guardandolo concilianti ma con serietà, e si fermò infine di nuovo davanti al tavolo dell’ispettore. "Il pubblico ministero Hasterer è un mio buon amico", disse, "posso telefonargli?" "Certamente", disse l’ispettore, "ma non so quale senso possa avere, a meno che lei non debba parlargli di qualche affare privato." "Quale senso?" esclamò K. più stupito che arrabbiato. "Ma chi è lei? Pretende un senso e intanto mette in scena questa, che è la cosa più insensata del mondo? Non è una scena da far pietà? Questi signori prima mi hanno aggredito, e ora se ne stanno seduti o in piedi qua e là e mi lasciano davanti a lei a fare acrobazie. Mi chiede quale senso può avere telefonare a un pubblico ministero quando, come sembra, sono stato arrestato? Bene, allora non telefonerò." "Ma no", disse l’ispettore, e allungò una mano in direzione dell’anticamera, dove si trovava il telefono, "la prego, telefoni pure." "No, adesso non voglio più", disse K., e andò verso la finestra. Dall’altra parte la compagnia era ancora affacciata, e solo ora che K. si era avvicinato alla finestra sembravano un po’ disturbati nel loro placido godimento dello spettacolo. I vecchi volevano alzarsi, ma l’uomo dietro di loro li tranquillizzò. "E poi abbiamo anche questi spettatori", esclamò a gran voce K. rivolto all’ispettore, mostrando fuori con l’indice. "Via da lì", gridò poi dall’altra parte. Subito i tre indietreggiarono di qualche passo, i due vecchi finirono addirittura dietro l’uomo, il quale li copriva con la sua massa corpulenta e, a giudicare dai movimenti della bocca, diceva in lontananza qualcosa di incomprensibile. Non scomparvero però del tutto, ma anzi sembravano aspettare il momento giusto per avvicinarsi di nuovo alla finestra senza farsi notare. "Gente invadente e sfacciata!" disse K., voltandosi di nuovo verso la stanza. Sembrava che l’ispettore fosse d’accordo con lui, come K. poté notare con uno sguardo di sfuggita. Ma era anche possibile che non fosse neppure stato a sentire, perché teneva una mano schiacciata sul tavolino e sembrava che volesse confrontare la lunghezza delle dita. I sorveglianti stavano seduti su una valigia coperta da un panno decorato e si strofinavano le ginocchia. I tre giovani tenevano le mani sui fianchi e si guardavano intorno senza fissare lo sguardo su nulla. Regnava un silenzio come in un ufficio dimenticato. "Allora, signori", esclamò K., per un momento ebbe la sensazione di portare tutti sulle proprie spalle, "a giudicare dal vostro aspetto, si direbbe che il mio affare sia giunto a conclusione. Sono dell’opinione che la cosa migliore sia non pensare più se il vostro comportamento fosse autorizzato oppure no, ma concludere amichevolmente la cosa con una reciproca stretta di mano. Se anche lei è della mia opinione, allora la prego..." e così dicendo si avvicinò al tavolo dell’ispettore tendendogli la mano. L’ispettore alzò gli occhi, si morse le labbra e guardò la mano tesa di K., e K. credeva ancora che l’ispettore l’avrebbe stretta. Costui invece si alzò in piedi, prese dal letto della signorina Bürstner un cappello duro e rotondo e con entrambe le mani, con cautela, se lo mise in testa, come si fa quando si prova un cappello nuovo. "Come le sembra tutto facile!" disse intanto a K. "Lei crede che dovremmo concludere amichevolmente la cosa? No, no, non va davvero. Con questo non voglio affatto dire che lei debba disperarsi. No, perché dovrebbe? Lei è solo in arresto, nient’altro. Questo dovevo comunicarle, ora l’ho fatto e ho anche visto come lei ha preso la cosa. Per oggi basta e possiamo anche salutarci, sia pure per breve tempo. Ora forse lei vuole andare in banca?" "In banca?" domandò K. "Pensavo di essere in arresto." K. faceva domande con un certo tono di sfida, perché, anche se la sua stretta di mano non era stata accettata, si sentiva sempre più indipendente da questa gente, specialmente da quando l’ispettore si era alzato in piedi. Era come un gioco che faceva con loro. Se se ne fossero andati, aveva l’intenzione di seguirli fino al portone per offrigli di arrestarlo. Per questo motivo ripeté ancora: "Come posso andare in banca, dato che sono in arresto?" "Ecco", disse l’ispettore, già sulla porta, "lei non mi ha capito. Certo che lei è in arresto, tuttavia questo non deve impedirla nella sua professione. E lei neppure deve essere disturbato nel suo abituale modo di vivere." "Allora questo modo di essere arrestati non è poi così cattivo", disse K., e si avvicinò all’ispettore. "Non ho mai detto che lo fosse", rispose questi. "Ma allora anche la comunicazione dell’arresto non sembra molto necessaria", disse K. avvicinandosi ancor di più. Anche gli altri si erano avvicinati. Ora si trovavano tutti in uno spazio ristretto davanti alla porta. "Era mio dovere", disse l’ispettore. "Un dovere stupido", disse K. ostinato. "Può darsi", rispose l’ispettore, "ma non vorremo davvero perdere il nostro tempo in simili discorsi. Avevo supposto che lei volesse andare in banca. Siccome lei sta a pesare ogni parola, allora aggiungo: io non la obbligo ad andare in banca, avevo solo pensato che lei volesse andarci. E per renderle ciò ancor più facile e rendere il suo arrivo in banca il più possibile inosservato, ho tenuto qui a sua disposizione questi tre signori, che sono suoi colleghi." "Cosa?" esclamò K., e guardò i tre stupefatto. Questi giovani esangui e così insignificanti, che erano finora nella sua memoria solo come gruppo davanti alle fotografie, erano effettivamente impiegati della sua banca, non colleghi, questo era eccessivo e dimostrava una lacuna nell’onniscienza dell’ispettore, ma impiegati subordinati della banca lo erano senz’altro. Come aveva potuto K. non accorgersene? Evidentemente la sua attenzione era tutta assorbita dall’ispettore e dai sorveglianti per non riconoscere questi tre. Il rigido Rabensteiner, con le braccia sempre in movimento, il biondo Kullich dagli occhi infossati e Kaminer, il cui sorriso insopportabile era dovuto a una contrattura cronica dei muscoli facciali. "Buon giorno!" disse K. dopo un po’ e tese la mano ai signori, che si piegarono come da regolamento in un inchino. "Non vi avevo neppure riconosciuti. Allora adesso ce ne andremo al lavoro, d’accordo?" Ridendo i signori fecero cenno di sì, e come se per tutto il tempo avessero aspettato solo questo, come se a K. mancasse solo il suo cappello, che era rimasto nella sua stanza, corsero zelanti tutti insieme a prenderlo, l’uno dopo l’altro, il che faceva comunque pensare a un certo imbarazzo. K. rimase in piedi silenzioso e li seguì con lo sguardo attraverso le due porte aperte, per ultimo arrivò naturalmente l’indifferente Rabensteiner, che si era limitato a un elegante trotterellare. Kaminer gli passò il cappello, e K. dovette espressamente dire a se stesso, come già spesso in precedenza in banca, che il sorriso di Kaminer non era intenzionale, ma che anzi costui, in generale, non era in grado di sorridere con intenzione. In anticamera la signora Grubach, che non aveva l’aria di sentirsi molto colpevole, aprì la porta di casa all’intera compagnia, e K. notò, come già spesso in passato, che i legacci del suo grembiule affondavano senza necessità nel suo corpo massiccio. Sotto casa K., con l’orologio in mano, decise di prendere un’automobile, per non aumentare senza motivo il suo ritardo, che era già di mezz’ora. Kaminer corse dietro l’angolo per prendere l’auto, gli altri due cercavano evidentemente di distrarre K., quando improvvisamente Kullich additò il portone di fronte nel quale era appena comparso l’uomo con il pizzetto biondo e che sul momento, imbarazzato di mostrarsi in tutta la sua altezza, indietreggiò verso la parete appoggiandovisi. I vecchi erano evidentemente ancora sulle scale. K. si irritò che Kullich avesse mostrato l’uomo, che lui stesso aveva già notato prima e che anzi aveva aspettato. "Non stia a guardare", esclamò senza pensare quanto era strano un tale modo di parlare nei confronti di persone indipendenti. Ma non ci fu bisogno di spiegazioni, perché proprio allora arrivò l’automobile, ci si sedette e si partì. Allora K. si ricordò di non aver notato quando se ne fossero andati l’ispettore e i sorveglianti, prima l’ispettore gli aveva coperto i tre impiegati, e ora gli impiegati l’ispettore. Ciò non dimostrava una gran presenza di spirito, e K. si prefisse di stare più in guardia da questo lato. Tuttavia, senza volerlo si voltò e si piegò sul retro della macchina per vedere ancora, se possibile, l’ispettore e i sorveglianti. Ma subito ritornò nella sua posizione senza aver fatto neppure il tentativo di cercare qualcuno, e comodamente si appoggiò in un angolo dell’automobile. Malgrado le apparenze, proprio ora avrebbe avuto bisogno che qualcuno gli parlasse, ma adesso i signori sembravano stanchi, Rabensteiner guardava a destra fuori dell’automobile, Kullych guardava a sinistra e solo Kaminer era lì disponibile con il suo ghigno, sul quale purtroppo i sentimenti di umanità proibivano di scherzare.


Revision: 2021/01/09 - 23:40 - © Mauro Nervi




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